26 marzo 1979 - 26 marzo 2012/Un interprete inquieto della politica italiana e la sua eredità protestante

Ugo La Malfa, oltre la destra e la sinistra

di Giancarlo Tartaglia

"Ne approfitto e per chiederti tue notizie e per invitarti a mandarmi qualcosa per ‘La Voce’. Come tu sai dal primo gennaio ne sono diventato direttore e cerco di fare del giornale un organo quotidiano di battaglia democratica, collocandolo vicino ai due settimanali: Il Mondo e L’Espresso. Ho bisogno che gli amici non mi lascino solo nella battaglia". Con queste parole, all’inizio del ‘59, Ugo La Malfa, da poco direttore de La Voce Repubblicana, scriveva, per sollecitarne la collaborazione, a Francesco Perri, vecchio repubblicano e militante antifascista che dalle colonne della Voce aveva sostenuto tra il 1921 e il 1926 un’aspra polemica contro il fascismo montante, prevedendone con estrema lucidità la sua involuzione totalitaria. Francesco Perri era stato anche direttore del quotidiano repubblicano nei mesi entusiasmanti della battaglia referendaria, mesi nei quali La Voce era arrivata a tirare anche centomila copie al giorno.

La battaglia per la Repubblica era stata vinta. Ma ora, nella storia dell’Italia repubblicana, si apriva un’altra fase di battaglie non meno entusiasmanti di quella istituzionale. La crisi del centrismo poteva considerarsi ormai definitiva, benché quella stagione avesse assicurato al Paese la fuoriuscita dagli immani disastri della guerra e avesse gettato le premesse di quello che sarebbe stato definito il miracolo economico italiano. L’ingresso dell’Italia nella Nato, la riforma agraria, la liberalizzazione degli scambi, la Cassa per il Mezzogiorno erano stati i risultati più significativi del riformismo centrista. Quella fase aveva però esaurito tutta la sua capacità innovativa con la scomparsa dalla scena politica di Alcide De Gasperi e le elezioni politiche del ‘53, che avevano registrato la sconfitta del blocco centrista e il responso negativo dell’elettorato su una legge elettorale maggioritaria, che aveva introdotto il "premio di maggioranza" alla coalizione vincente, ma che richiamava alla mente quella legge elettorale voluta da Mussolini nel ‘23 e che avrebbe assicurato la maggioranza parlamentare al fascismo nelle elezioni del ‘24.

Come uscire dalla crisi del centrismo? Questo fu l’interrogativo che Ugo La Malfa si pose nella ricerca di un nuovo equilibrio politico che potesse garantire una nuova fase di crescita dell’Italia. Dalle colonne della Voce, quasi quotidianamente, iniziò a stimolare le forze politiche perché si potesse realizzare un nuovo e diverso fronte riformatore. Bisognava convincere i socialisti e in particolare il loro leader Pietro Nenni sulla necessità di abbandonare l’ortodossia marxista e di svincolarsi dalla subordinazione al Partito comunista. Bisognava convincere la Democrazia Cristiana a riprendere la bandiera di De Gasperi ("un partito di centro che guarda a sinistra"), archiviando le suggestioni conservatrici che animavano quel partito. Bisognava convincere i socialdemocratici di Saragat della necessità di ritessere la tela lacerata del socialismo riformista italiano.

Non era una battaglia facile. Contro quell’ipotesi si era schierato, infatti, tutto il mondo imprenditoriale italiano e tutta la grande stampa di informazione. Ma La Malfa andò avanti con fermezza, anche scontando una dolorosa scissione all’interno del suo partito. Alla fine vinse. Si apriva all’inizio degli anni ‘60 la nuova esperienza di centro-sinistra segnata dalla politica di programmazione e dalla famosa "Nota aggiuntiva" che La Malfa, in qualità di Ministro del Bilancio, aveva presentato al Parlamento e che delineava le linee del nuovo intervento dello Stato volto a sanare gli squilibri sociali e territoriali del Paese.

Ma quella stagione era destinata a durare poco, anche meno del centrismo. Dalla sua disillusione maturò lentamente nel pensiero di La Malfa l’idea che si dovesse andare ancora oltre e che non ci fossero prospettive di sviluppo per un Paese nel quale continuava ad avere una larga presenza e un grande peso un Partito comunista ancorato alle dottrine di Marx e vincolato alla politica conservatrice dell’Unione Sovietica.

Iniziò, cosi, quel lungo confronto con il Partito comunista che avrebbe portato anche in quel partito una nuova e diversa consapevolezza dei problemi italiani. Nella maturazione del PCI, e nel suo viaggio verso l’Occidente, lo stimolo e la presenza di Ugo La Malfa devono considerarsi fondamentali.

La Malfa è sempre stato un interprete inquieto della politica italiana, ma aveva sempre ben presente che l’interesse dell’Italia andasse ben oltre l’interesse del suo partito. In tutte le fasi critiche della vita italiana si è sempre sforzato di vedere in avanti e di individuare le soluzioni migliori per il suo Paese. Oggi, mentre attraversiamo un’altra difficile e convulsa fase della vita repubblicana e ci interroghiamo sul che fare, avremmo bisogno della sua presenza e della sua lucida capacità di intravedere la via del futuro. Purtroppo Ugo La Malfa non c’è più, ma la sua lezione e il suo insegnamento possono ancora guidarci.

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di Riccardo Bruno

Il tratto, il pensiero, il carisma di Ugo La Malfa sono apparsi negli anni trascorsi, dal giorno della sua morte, il 26 marzo 1979, sempre più come insostituibili. Non c'è più stato un uomo capace di quella sua stessa caratura, e questo, purtroppo, non vale per il solo Partito repubblicano, ma per tutta la classe politica italiana. Ugo La Malfa è stato un fenomeno unico. Egli portava fin nella sua stessa carne l'asprezza della terra siciliana e nella mente una formazione intellettuale tra Venezia e Milano, la città preferita di Stendhal, quale proiezione europea. Se guardiamo solo alla sua figura fisica, comee la ricordiamo in tutta la tensione morale che esprimeva, l'uomo sembrava sempre sul punto di spezzarsi. E invece Ugo La Malfa non si spezzava mai. Prima ancora che di visione politica, Ugo La Malfa viveva di forti sentimenti. I legami personali con Aldo Morto e Giorgio Amendola ne sono testimonianza. Con Moro ci fu un'amicizia solida, una frequentazione continua, capace di superare crisi e scontri polemici, anche duri. "In Italia succede tutto questo e Moro viaggia", scrisse Ugo La Malfa in un articolo nei primi anni '70, ma la morte di Moro lo investì come un colpo personale che gli veniva inflitto. Giorgio Amendola era il figlio del suo maestro Giovanni Amendola. Per La Malfa una sofferenza infinita solo il sapere che la progenie dell'ideale liberale era divenuta militanza comunista. "Mica ce l'ha con il Pci, ce l'ha con me", spiegava Giorgio Amendola ai suoi compagni di partito radunati alla buvette di Montecitorio, dopo che La Malfa aveva lanciato una ben nota requisitoria ai tempi dallo Sme. Ma il legame personale con Giorgio Amendola resistette perché vi sono comunque dei doveri nella vita verso le proprie amicizie ed i propri affetti, capaci di prevalere sulle distinzioni politiche.

Ugo La Malfa, come stratega, fu ancora più affascinante e meriterebbe qualche sforzo meno convenzionale, dal punto di vista interpretativo, di quelli cui pure siamo abituati. Alleato di ferro della Dc, La Malfa voleva limitarne il potere e si rivolgeva ad un'altra forza politica, dalla sua ben diversa, perché il Pri - numericamente - era insufficiente per tale compito. Nello stesso tempo, con il "centrosinistra", Ugo La Malfa aperse una ferita fatale alle speranze di successo della sinistra italiana, dividendo quell'unità stalinista fra Pci e Psi che si era saldata nei primissimi anni del secondo dopoguerra. Fu Ugo La Malfa a scoperchiare il contrasto fra socialisti e comunisti che si era in qualche modo saldato durante la lotta al fascismo e a porre nuovamente in crisi il rapporto fra i due partiti marxisti. Psi e Pci, costretti a cimentarsi con la prospettiva del compromesso piuttosto che con quella dell'alternativa, non avrebbero mai governato da soli e sempre si sarebbero rincorsi. Quando il Psi voleva l'alternanza di sinistra, il Pci voleva il compromesso; quando il Psi varava il pentapartito, il Pci voleva l'alternanza di sinistra. Ugo La Malfa era consapevole di rappresentare una minoranza nel paese, la sola però capace di guardare ad Occidente e alla complessità delle economie sviluppate. Una dote ancora difficile da trovare oggi.

Di più, La Malfa era portatore di una visione morale riformatrice e protestante piuttosto ignota, se non sconosciuta del tutto, nel paese. In fondo "il compromesso" lo avrebbe lasciato volentieri ai cattolici, ai socialisti e ai comunisti. La Malfa rappresentava un'alternativa, "l'altra Italia", oppure "l'altra sinistra". La Malfa era l'alternativa di questo paese, lui solo, e il suo piccolo partito rompiscatole, il Pri. E per far capire che la lena sarebbe stata lunga e che non bastava nemmeno una testa pesante, mostrava anche un corpo forte: ancora a 70 anni si arrampicava sulle montagne. Purtroppo il paese rispettava La Malfa, ma non lo amava, perché probabilmente non lo capiva. Il problema è se l'abbia compreso almeno il suo stesso partito. "Io passerò", disse ancora al congresso di Firenze, ma "il partito resta e dovrà andare avanti lo stesso". Sono stati troppi quelli che invece hanno preferito andare avanti, loro, e sulle spalle del partito, sperando che passasse quest'ultimo.